Danni da cannabis al cervello giovane

 

 

LUDOVICA R. POGGI

 

 

 

NOTE E NOTIZIE - Anno XVII – 25 gennaio 2020.

Testi pubblicati sul sito www.brainmindlife.org della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione “note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui argomento è oggetto di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione Scientifica della Società.

 

 

[Tipologia del testo: AGGIORNAMENTO]

 

Un articolo di Helen Shen sull’attualità dei danni procurati dalla cannabis al cervello in età evolutiva, pubblicato in anteprima online su Proceedings of the National Academy of Sciences USA[1], mi induce a riprendere il filo – mai realmente interrotto dalla fondazione della nostra società scientifica – della comunicazione a scopo informativo e formativo su questo argomento, che avevo affrontato tre mesi or sono con la recensione di un interessante lavoro di Roberto Frau e colleghi[2]. La Shen registra la preoccupazione di genitori, educatori e professori circa i danni a lungo termine che l’uso del vegetale ad effetto psicotropo può causare alle funzioni e allo sviluppo del cervello di ragazzi e adolescenti; e sottolinea come questo timore stia inducendo molti a chiedere conferenze e lezioni a Kuei Y. Tseng, neuroscienziato dello sviluppo dell’Università dell’Illinois a Chicago, che indaga da tempo gli effetti sul cervello dei mammiferi del tetraidrocannabinolo (THC), il principale composto psicoattivo della cannabis[3].

Intervistato da Helen Shen, Kuei Tseng racconta, con stupore, l’atteggiamento del suo uditorio di giovanissimi: “È sorprendente, ma non sono così preoccupati”[4]. E spiega che molti chiedono quanta ne possono consumare prima di avere gravi danni al cervello. È evidente che ha prodotto effetti la martellante disinformazione di decenni di propaganda, orchestrata da movimenti di opinione e riviste in tutto il mondo, che hanno cercato di presentare come innocua e “terapeutica” una sostanza psicotropa che garantisce enormi profitti per il basso costo di produzione.

Recentemente, e precisamente il 29 agosto 2019, i medici chirurghi statunitensi (US Surgeon General), benemeriti per decenni di efficaci campagne antifumo, hanno pubblicato una nota che esprime l’orientamento dei clinici americani e si può così sintetizzare: fino a quando non si conoscerà di più sull’impatto di lunga durata, la scelta più sicura per gli adolescenti e le donne in gravidanza è l’assoluta astensione dall’assunzione di marijuana[5].

Si ricorda che, anche se in 41 stati degli USA i derivati della cannabis sono illegali, dal 2012 in 11 stati, più il District of Columbia[6], si sono avute forme di legalizzazione che hanno creato condizioni simili a quelle cui stiamo assistendo in Italia con l’autorizzazione all’apertura di innumerevoli negozi specializzati nella vendita di ogni tipo di preparazione del vegetale. Scott Gottlieb, ex commissario della Food and Drug Administration (FDA), si è detto molto preoccupato per le conseguenze sul cervello degli adolescenti di questa sorta di “grande esperimento naturale”[7] involontariamente allestito dai governanti responsabili della legalizzazione.

Negli ultimi due decenni, una considerevole mole di dati emersi dalla sperimentazione, ha indicato effetti estremamente preoccupanti dei derivati della cannabis sul cervello in età evolutiva e negli anni seguenti. Nel 2012 abbiamo recensito uno studio di Meier e colleghi pubblicato su PNAS USA e condotto su 1037 soggetti, seguiti dalla nascita fino all’età di 38 anni, con rilievo di dati previsti dal protocollo alle età di 18, 21, 26, 32 e 38 anni; con la prima valutazione neuropsicologica completa all’età di 13 anni e l’ultima a 38 anni[8]. È stata impiegata una raccolta di informazioni ottenute da osservatori, che hanno notato problemi cognitivi nei consumatori abituali di cannabis. I deficit riscontrati erano maggiori nel gruppo di coloro che avevano dato inizio all’assunzione della sostanza nel periodo dell’adolescenza. È stato rilevato uno stretto rapporto proporzionale fra la persistenza nell’uso e l’entità del declino nelle prestazioni cognitive. Si legge nel nostro articolo:

“Fra i dati più rilevanti, e in un certo senso impressionanti, emersi da questo studio, vi è il rilievo che la cessazione completa e protratta dell’assunzione di cannabis non era in grado di ristabilire il livello fisiologico di prestazioni neuropsicologiche nei consumatori che avevano sviluppato l’abitudine nell’adolescenza. Un dato netto e preciso, che non lascia margini per dubbi ed ipotesi, indicando l’esistenza di un danno permanente irreversibile, la cui natura strutturale dovrà essere indagata da studi sulla biologia delle lesioni da cannabis dell’encefalo umano”[9].

Dalla pubblicazione di questo lavoro, molto significativo per le dimensioni del campione e l’omogeneità dei risultati, la ricerca ha indagato con differenti metodologie il problema, prendendo le mosse da dati epidemiologici convergenti che mostravano in chiave statistica la stretta associazione fra abuso di cannabis durante l’adolescenza, aumentato rischio di psicosi e sviluppo in età adulta di deficit cognitivi dipendenti dalla funzione della corteccia prefrontale.

Su questa base, molti ricercatori hanno focalizzato l’attenzione sull’azione molecolare del THC e degli altri composti che si legano al recettore CB1 nel cervello, agendo da agonisti che disturbano il regime di regolazione cui sono sottoposti gli endocannabinoidi, mediatori di processi importanti nella maturazione dell’encefalo.

Buona parte della notorietà acquisita da Kuei Y. Tseng è dovuta a uno studio sugli effetti della stimolazione esogena del recettore CB1 durante l’adolescenza, condotto con Cass e altri colleghi dell’Università Rosalind Franklin per la Medicina e le Scienze nel 2014. I ricercatori, lavorando su ratti in fasce d’età distinte in adolescenza iniziale, media adolescenza, tarda adolescenza ed età adulta, hanno rilevato e dimostrato che la stimolazione non fisiologica del recettore CB1 nei roditori adolescenti compromette la maturazione funzionale dei sistemi interneuronici che esercitano, mediante il GABA, la regolazione inibitoria della corteccia prefrontale. In particolare, l’insieme dei dati indica che l’adolescenza, soprattutto nella sua fase iniziale e media, costituisce un periodo critico durante il quale la ripetuta stimolazione del recettore CB1 determina uno stato perdurante di perdita dell’inibizione fisiologica delle reti neuroniche della corteccia prefrontale, per deficit di sviluppo della trasmissione GABAergica[10].

Sottolineamo, per il lettore non specialista, che la significatività di questo studio e degli altri simili condotti sui ratti è data dalla dimostrata e verificata equivalenza funzionale delle strutture testate con le omologhe umane.

Nella prosecuzione del suo articolo, la Shen afferma che anche se molti studi di osservazione indicano che il consumo di cannabis durante l’adolescenza può essere associato a danni mentali a lungo termine, quali deficit cognitivi e accresciuto rischio di schizofrenia, la ricerca rimane “inconclusiva” circa la natura e la forza di tali associazioni. Con questa affermazione, che probabilmente si riferisce all’incompleta conoscenza dei meccanismi molecolari, dimostra di seguire la logica rovesciata dei venditori di cannabis: se non scoprite fino all’ultimo meccanismo molecolare noi continueremo a negare la responsabilità della nostra merce per i danni prodotti al cervello. Con questo criterio da “avvocati formalisti” non si fa scienza: anche in molte malattie da batteri non si conoscono tutti i meccanismi innescati dalle tossine, ma si sa come determinano danni e morte dell’organismo, e tanto è bastato per adottare misure preventive e sviluppare farmaci per salvare la vita di tante persone. Lo stesso vale per le molecole che si adoperano in terapia: per una quota notevole di composti le conoscenze farmacodinamiche sono molto limitate e non sono noti tutti i meccanismi molecolari che innescano; tuttavia, l’innocuità alle dosi terapeutiche e la conoscenza dei meccanismi dell’efficacia sono sufficienti per adoperarli[11].

Continuare a studiare i meccanismi del danno da sostanze esogene che si legano ai recettori degli endocannabinoidi, oltre che per l’interesse neurobiologico generale che può derivare dalla loro conoscenza, ha motivo soprattutto per lo scopo di individuare mezzi e strategie terapeutiche per coloro che hanno subito danni tossici dal loro uso.

È opportuno a questo punto ricordare che la maggior parte dei lavori, come quello di Kuei Tseng, ha indagato gli effetti mediati dal recettore CB1, ma ormai da anni sappiamo che il recettore CB2 cerebrale non si può più ignorare, perché la sua importanza fisiologica è stata accertata e confermata da numerosi studi.

CB1, il recettore Gi/Go-accoppiato a proteine, che media i più noti effetti degli endocannabinoidi nel sistema nervoso centrale, è stato clonato nel 1990. Nel 1993 è stato clonato CB2. CB1 è di gran lunga il recettore più espresso nel cervello, e inizialmente si è ritenuto che CB2 fosse presente quasi esclusivamente in sedi extra-cerebrali come il sistema immunitario; oppure che la sua limitata espressione nell’encefalo, che pure era stata rilevata, non riguardasse i neuroni. Ormai da anni si è scoperta la partecipazione di CB2 a varie patologie che interessano i sistemi dopaminergici cerebrali, oltre che a processi fisiologici di base. Ad esempio, nel mesencefalo questi recettori mediano l’inibizione dei neuroni rilascianti dopamina implicati nell’effetto a ricompensa. Hai-Ying Zhang e colleghi, impiegando vari approcci metodologici, hanno accertato che i geni e i recettori CB2 sono espressi dai neuroni dopaminergici mesencefalici e che l’attivazione dei recettori CB2 su queste cellule inibisce la loro scarica e l’auto-somministrazione di cocaina in topi sottoposti al paradigma sperimentale di attivazione dell’area tegmentale ventrale (VTA)[12].

Il prosieguo degli studi ha poi evidenziato che i recettori CB2, espressi sia nei neuroni che nelle cellule gliali del cervello in condizioni fisiologiche e patologiche, sono implicati in numerose funzioni ai livelli cellulare e comportamentale; in particolare, sono inducibili per ruoli neuroprotettivi in varie circostanze. Sono poi stati condotti studi sulle isoforme: nelle cellule dell’encefalo CB2A è l’isoforma più espressa[13].

Le indagini sui recettori dovrebbero contribuire a chiarire il modo in cui gli endocannabinoidi anandamide e 2-AG intervengono nei processi di regolazione dello stress, del dolore, del tono psichico dell’umore, dell’appetito alimentare, dell’ansia e della paura[14]. Nel cervello del feto è stato accertato che gli endocannabinoidi modulano vari processi di sviluppo e, secondo quanto indicato da evidenze emergenti da osservazioni recenti, avrebbero un ruolo molto simile nell’encefalo dell’adolescente, influenzando la maturazione sinaptica e mielinica[15].

I modi in cui il THC assunto dall’esterno possa alterare la fisiologia della regolazione endocannabinoide, si evincono da uno studio condotto presso l’Università di Insubria a Varese da Tiziana Rubino e colleghi, che hanno esposto femmine di ratto adolescenti alla molecola[16]. Il principio attivo della Cannabis sativa ha compromesso nella corteccia prefrontale la maturazione e lo sviluppo di vari sistemi neuronici identificati in base al neurotrasmettitore e, quando le femmine dei roditori sono divenute adulte, hanno presentato numerosi deficit cellulari, sinaptici e comportamentali. In particolare, è emerso che i neuroni della corteccia prefrontale avevano una minore capacità di regolazione rapida e adattamento della forza sinaptica delle loro connessioni; ossia era deficitario un processo fondamentale per l’apprendimento e la memoria. In termini comportamentali, il difetto di aggiustamento della forza sinaptica durante l’esperienza si è tradotto in pessime prestazioni nei compiti di apprendimento con il paradigma dei labirinti, evidenti nel confronto con le controparti di controllo[17].

I risultati delle osservazioni sperimentali sui roditori sono notevolmente omogenei e coerenti, e le omologie supposte in questi studi sono le stesse assunte dalla sperimentazione farmacologica; tuttavia, è comprensibile che la complessità del nostro cervello suggerisca prudenza nell’estendere i dati alla realtà umana, soprattutto se è in questione una valutazione circa la potenzialità causale o concausale nello sviluppo della schizofrenia, ossia il più grave dei disturbi psicotici descritti in clinica psichiatrica. Pertanto, la ricerca condotta mediante l’osservazione diretta del cervello umano e lo studio della fenomenica clinica e comportamentale, continua in questo campo a rivestire la massima importanza. Storicamente, l’associazione fra consumo di cannabis in adolescenza ed esordio della schizofrenia è stata oggetto di lunghe controversie, soprattutto perché molti osservatori rilevavano che i metodi impiegati non consentivano di stabilire quale delle due, fra assunzione della sostanza e psicopatologia, fosse la causa dell’altra; implicitamente supponendo che un genotipo di predisposizione psicopatologica possa facilitare l’acquisizione dell’abitudine compulsiva.

I militanti dei movimenti favorevoli alla liberalizzazione e alla legalizzazione dei prodotti del vegetale, attraverso ogni forma di comunicazione, accusavano di inattendibilità gli studi che rilevavano l’associazione, in quanto non “longitudinali”; spesso ignorando che lo scopo di quei lavori non era stabilire un nesso di causalità, ma condurre analisi epidemiologiche precise, in grado di fornire una fotografia sociale del problema, da offrire alle branche specializzate della ricerca. In realtà molti istituti, dagli anni Novanta a tempi recenti, hanno sviluppato progetti di indagine al riguardo prendendo le mosse da uno studio longitudinale svedese del 1987, che ha letteralmente segnato un’epoca in questo campo: 45.000 militari di leva erano stati esaminati all’atto delle visite militari per l’idoneità all’arruolamento all’età di 19 anni e poi sottoposti a verifica, 15 anni dopo, di tutti i parametri e le abitudini di vita registrati[18]. Un dato, per tutti, rimane particolarmente significativo: i giovani che avevano assunto più di 50 volte derivati della cannabis prima dei 19 anni, a 34 anni presentavano un’incidenza di schizofrenia 6 volte maggiore.

Lo studio, spesso anche da noi citato, condotto da Robin Murray e colleghi del King’s College nel 2002 su un campione di giovani neozelandesi di oltre 50 volte inferiore per numero di quello svedese[19], ha rilevato che i ragazzi che avevano cominciato ad assumere cannabis entro l’età di 15 anni presentavano un “rischio” 4 volte maggiore di sviluppare schizofrenia entro i 26 anni di età; l’aumento di probabilità invece era basso in coloro che avevano cominciato ad assumere la sostanza più tardi[20].

Una rassegna completa di tutti gli studi che sono stati condotti finora sull’uomo esulerebbe dai limiti di questa trattazione, ma quanto riportato è concettualmente sufficiente a rendersi conto dello stato delle conoscenze. Non disponendo in diagnostica per immagini di specifici marker di danno cerebrale da cannabis o di tratti morfologici di un singolo e certo fenotipo cerebrale schizofrenico, le evidenze di associazione mostrata da studi condotti con queste metodiche non si considerano oggettivazioni assolute, ma interpretazioni “ragionevolmente possibili”.

In generale, se la nocività cerebrale del consumo protratto di cannabis in età adolescenziale non è più messa in dubbio, per la definizione dello specifico ruolo nella patogenesi di disturbi mentali e deficit cognitivi, così come per la risposta ai tanti interrogativi dei ricercatori, sarà necessario un lavoro impegnativo e protratto.

Molti ricercatori sperano di ottenere risposte alle loro domande da un ambizioso progetto varato negli Stati Uniti dai National Institutes of Health (NIH) di Bethesda, nel Maryland, e concepito come il più grande studio statunitense finalizzato alla conoscenza dello sviluppo del cervello umano e alla tutela della salute dei bambini. Sarà rilevata un’impressionante quantità di dati mediante analisi genetiche, metodiche strutturali e funzionali di neuroimmagine del cervello, valutazioni di prestazioni cognitive, abitudini quotidiane, comportamento e altre categorie, da un campione previsto di 12.000 bambini, che saranno seguiti per tutto il prossimo decennio fino alle soglie dell’età adulta. L’iniziativa è già nota alla comunità scientifica internazionale, che nutre notevoli aspettative, come ha sottolineato Catherine Orr della Swinburne University of Technology di Melbourne in Australia.

Il nostro auspicio è che dai tanti laboratori che indagano con metodi diversi i processi biologici dello sviluppo cerebrale e gli effetti delle sostanze neurotropiche sull’evoluzione fisiologica, possano emergere acquisizioni di importanza decisiva quanto prima, senza dover attendere oltre un decennio per il completamento della banca-dati dell’NIH.

 

L’autrice della nota ringrazia la dottoressa Isabella Floriani per la correzione della bozza, e invita alla lettura delle recensioni di studi di argomento connesso che appaiono nella sezione “NOTE E NOTIZIE” del sito (utilizzare il motore interno nella pagina “CERCA”).

 

Ludovica R. Poggi

BM&L-25 gennaio 2020

www.brainmindlife.org

 

 

 

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[1] Shen H., Cannabis and the adolescent brain. Proceedings of the National Academy of Sciences 117 (1): 7-11, 2020.

[2] Note e Notizie 19-10-19 La cannabis materna causa un fenotipo patologico nei figli.

[3] Esiste da tempo come farmaco approvato dalla FDA con il nome di dronabinolo.

[4] Shen H., art. cit. [TdA], 2020.

[5] Cfr. Shen H., art. cit., 2020.

[6] Lo speciale distretto dove ha sede la capitale Washington.

[7] Shen H., art. cit. [TdA], 2020.

 

[8] Note e Notizie 15-09-12 Declino cognitivo negli assuntori di cannabis.

[9] Note e Notizie 15-09-12 Idem.

[10] Cass D. K., et al. CB1 Cannabinoid Receptor Stimulation During Adolescence Impairs the Maturation of GABA Function in the Adult Prefrontal Cortex. Molecular Psychiatry 19, 536-543, 2014.

[11] Si pensi all’aspirina (acido acetilsalicilico), che si usa dal suo brevetto del 1899, ma solo negli anni Settanta del Novecento si è scoperto il meccanismo molecolare dell’inibizione delle due isoforme COX-1 e COX-2 della ciclossigenasi, e ancora oggi prosegue la ricerca sul suo meccanismo d’azione.

[12] Note e Notizie 15-11-14 come i CB2 scoperti nel cervello modulano il comportamento.

[13] Note e Notizie 02-02-19 Progressi nella ricerca sul recettore CB2 cerebrale. In questo articolo si forniscono anche i dati biochimici sui recettori degli endocannabinoidi e si ricordano le circostanze sperimentali della loro scoperta.

[14] Meyer H. C., et al. The role of endocannabinoid system and genetic variation in adolescent brain development. Neuropsychopharmacology 43, 21-33, 2018.

[15] Meyer H. C., et al., art cit., 2018.

[16] Interessante anche perché in controtendenza con la maggior parte degli studi che impiega solo ratti maschi.

[17] Rubino T., et al. Adolescent exposure to THC in female rats disrupts developmental changes in prefrontal cortex. Neurobiology of Disease 73, 60-69, 2015.

[18] Andreasson S., et al. Cannabis and schizophrenia: A longitudinal study of Swedish conscripts. Lancet 2, 1483-1486, 1987.

[19] Si tratta in realtà del campione del “Dunedin Study”, un progetto con numerose altre finalità.

[20] Arseneault L., et al. Cannabis use in adolescence and risk for adult psychosis: Longitudinal prospective study. BMJ 325, 1212-1213, 2002.